Agnès Varda, nata nel 1928 a Ixelles, è una figura iconica dell’arte e del cinema, spesso rivendicata dalla Francia come espressione dell’anima parigina, nonostante le sue origini belghe. La sua opera è un mosaico eclettico di fotografie, film e installazioni che riflette influenze diverse, come il cinema della New Wave e quello di suo marito, Jacques Demy, oltre alla costante presenza dei gatti.
Dotata di una Rolleiflex, Varda iniziò a fotografare i suoi dintorni già nel 1947. Dopo aver conseguito un diploma in fotografia all’École de Vaugirard nel 1949, divenne la fotografa ufficiale del festival di Avignone e successivamente del Théâtre National Populaire fino al 1961, catturando sia gli spettacoli sul palco che la vita dietro le quinte.
La passione per la fotografia
Uno dei luoghi che più colpì la sua immaginazione fu Sète, dove si era rifugiata con la famiglia durante la Seconda Guerra Mondiale. Affascinata dal quartiere dei pescatori di La Pointe Courte, Varda dedicò quasi 250 immagini a scene quotidiane di questo angolo di mondo: reti da pesca, barche a vela, giostre lungo i canali. Queste fotografie non erano semplici esercizi di stile, ma l’inizio della preparazione per il suo primo film, “La Pointe Courte” del 1954, per il quale utilizzò alcune di queste immagini come inquadrature fisse nel montaggio finale.
Ritornata a Parigi nello stesso anno, si stabilì in rue Daguerre, dove aprì il suo studio che divenne un luogo di ritrovo per artisti e amici. Il nome della strada, omaggio al pioniere della fotografia Louis Daguerre, sembrava un segno propizio per Varda, che rimase legata a questo indirizzo per il resto della sua vita. Qui espose ritratti, nudi e nature morte che rappresentavano familiari, amici e vicini, anticipando il suo approccio artistico libero e innovativo.
Varda si cimentò anche nella fotografia di strada, immortalando figure come Brassaï e altri personaggi locali di fronte a muri decrepiti e graffiti, esplorando temi che avrebbe poi approfondito nel suo futuro lavoro “Mur Murs”.
Nel 1954, scattò una fotografia destinata a diventare iconica: su una spiaggia della Normandia, un uomo nudo di spalle cammina tenendo per mano un bambino, con una capra morta in primo piano. Quasi trent’anni dopo, nel 1982, Varda trasformò questo scatto in un cortometraggio, “Ulisse”, che raccontava la storia dietro l’immagine. Questo lavoro le fruttò un César per il miglior cortometraggio, confermando il suo talento nell’intrecciare visivamente narrazione e immagine fissa in maniera profondamente originale e toccante.
Agnès Varda e il cinema
Agnès Varda ha attraversato decenni di cinema mantenendo intatta la sua passione e il suo spirito innovativo, trasformando ogni progetto in un’esplorazione profonda delle potenzialità narrative e visive del medium. Come una delle poche registe donne attive sin dagli anni ’30, Varda ha lasciato un’impronta indelebile nel mondo del cinema, spaziando dai suoi esordi con “La Pointe Courte” al celebre “Cléo de 5 à 7” del 1962, fino ai lavori più recenti come “Visages Villages” del 2017, realizzato on the road con l’artista JR.
Varda vedeva ogni fotografia come un enigma, ogni immagine fissa come una domanda su ciò che è accaduto prima e cosa accadrà dopo. Il cinema diventava il suo strumento per esplorare queste interrogazioni, spesso blurrando la linea tra finzione e documentario, tra vita e arte. Con “La Pointe Courte”, ad esempio, ha anticipato i concetti chiave della Nouvelle Vague prima ancora che il movimento prendesse piede nel 1956. In questo film, così come nei successivi, gli attori—spesso principianti o non professionisti—e i passanti diventavano parte integrante del “teatro della vita”, inserendosi in un tessuto narrativo che sfumava i confini del reale.
Inoltre, Varda non parlava solo di sceneggiatura, ma di “cinescrittura”, un termine che sottolinea come il film debba evolversi naturalmente, guidato dalla verità del momento catturato dalla camera. Questa filosofia si riflette anche nella sua indipendenza produttiva. Nel 1975, Varda fondò la sua società di produzione, Ciné-Tamaris, per garantirsi una libertà creativa ed economica. Già con “La Pointe Courte”, aveva optato per un finanziamento cooperativo, rifiutando di dipendere dai canali commerciali tradizionali.
Attraverso la sua arte, Agnès Varda non solo ha esplorato le intersezioni tra immagine fissa e immagine in movimento, ma ha anche sfidato le convenzioni narrative e produttive, lasciando un’eredità di libertà creativa e di impegno autentico verso la verità visiva e emotiva.
La sua tecnica fotografica
Agnès Varda, attraverso la sua carriera, ha saputo fondere con maestria le tecniche fotografiche e cinematografiche, dimostrando un’abilità unica nel trasformare ogni scatto in un’opera d’arte. La sua tecnica dell’immagine rifletteva una precisione quasi chirurgica, con un’attenzione scrupolosa ai dettagli, alle linee di fuga e alla composizione, elementi che rivelano l’innata sensibilità del fotografo dietro la regista.
Varda ha curato personalmente le proprie stampe per molto tempo, immergendosi in processi di editing che spaziavano dal realistico al surreale. Questa fase della sua carriera è stata caratterizzata da un’intensa sperimentazione, fino a quando non ha deciso di affidare questo compito a Diamantino Quintas, un tiratore riconosciuto nel campo. Anche se ha in seguito delegato la direzione della fotografia dei suoi film a professionisti del calibro di Jean Rabier per “Cléo de 5 à 7”, Varda ha sempre mantenuto un profondo legame con la fotografia, vedendola come un mezzo per esplorare la “finezza di un ritmo” che risiedeva non nel movimento, ma nella potenza evocativa delle immagini statiche.
Un esempio notevole del suo approccio unico è stato il suo viaggio a Cuba nel 1962, invitata dall’Istituto Cubano di Arte Cinematografica. Durante questo periodo, Varda ha catturato un numero impressionante di fotografie con la sua Leica in formato 24×36, in un contesto di fervore rivoluzionario. Nel 1964, ha creato “Hello Cubans”, un montaggio ritmico di 30 minuti di queste fotografie, che ha vinto una medaglia di bronzo al Festival del cinema documentario di Venezia e che è stato in seguito esposto al Centre Pompidou nel 2015. Questo lavoro includeva anche un ritratto emblematico di Fidel Castro, seduto davanti a delle rocce che sembravano ali.
All’avvento della fotografia digitale nel 2000, Varda ha esplorato nuove possibilità narrative con “Les Glaneurs et la Glaneuse”, un documentario che indagava la realtà di coloro che vivono ai margini della società, raccogliendo ciò che gli altri scartano. Questo film riflette la sua capacità di utilizzare la fotografia e il cinema per esplorare e rappresentare la realtà sociale con uno sguardo critico e umano.
La capacità di Varda di intrecciare le parole con le immagini ha arricchito il cinema francese, rendendola meritevole di numerosi riconoscimenti, tra cui César, Oscar e Palme d’Or. Il suo lavoro rimane un fondamentale punto di riferimento nell’arte visiva, mostrando come linguaggio e rappresentazione possano andare di pari passo per raccontare storie profondamente umane e visivamente poetiche.
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